Nel sanatorio di Berghof lo scrittore tedesco trovò ispirazione, in un perenne presente, per tratteggiare il declino di un’epoca e la rottura della coscienza europea, dalla quale emersero, con la loro forza distruttiva, comunismo e nazismo. Un’Europa prossima al suicidio collettivo, in cui lo stigma della “verità” era sopraffatto dalla diffusione della “menzogna” o soffocato dalla “malinconia” del personaggio principale, Hans Castorp.
Anche oggi siamo costretti ad assistere ai segni della continuità del declino, che si afferma in ogni angolo del sapere e della politica, riassunto nell’efficace espressione del “pensiero debole”, coniata da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovati. Il “pensiero debole” è la sintesi di un sapere dell’incertezza, della interpretazione infinita e della relativizzazione sistematica.
In questo contesto, negli ultimi decenni abbiamo guardato all’esplodere di espressioni che hanno rappresentato il cuore del dibattito culturale e finanche politico, come “debolezza”, “crisi dei fondamenti”, “relativismo nichilista”.
La decostruzione e la sospensione della pretesa di verità si è però sviluppata attraverso la ragione di una verità diversa o alternativa, ma proprio questo elemento è apparso per essere contraddittorio rispetto all’assunto di un “pensiero debole”. Insomma, non può negarsi che, sia pure con procedere carsico, si sia sviluppato una tendenza interpretativa della realtà o del “fatto storico” assistita, in qualche modo, da un presupposto di solidità.
Vi è, però, che la crisi della verità è pur sempre una crisi della società, senza la prima anche la seconda è destinata a disintegrarsi. L’erosione della verità è iniziata molto prima della politica delle fake news di Donald Trump. Quando Trump afferma in maniera disinvolta qualsiasi cosa che gli convenga, non è un classico bugiardo che distorce deliberatamente la realtà delle cose, è semplicemente indifferente alla verità (un bullshitter, come lo definisce il filosofo statunitense Harry Frankfurt).
Se la politica è un gioco di potere, tuttavia la democrazia non resta cieca, perché si muove in una cornice di parresia, intesa non come arbitrarietà dell’opinione che degenera in una libertà concessa a tutti di dire qualsiasi cosa, anzi tutto ciò che in quel momento piace o fa più comodo, quanto una dimensione che definirei platonica-evolutiva.
Proprio queste profonde ragioni, che vengono da lontano – dal ricordo dell’opera di Thomas Mann – e continuano nelle più recenti correnti di pensiero socio-filosofiche, mi inducono a guardare con profondo sospetto alle tesi, tanto diffuse, con indubbio tratto teatrale, anche dal nostro Presidente di Regione sul tema della cosiddetta autonomia differenziata.
Qui la verità, che altro non è se non la onesta interpretazione del testo normativo, pare tradursi nel mito platonico della caverna, sì che il pubblico, astretto dalle “catene” della propaganda o dell’indifferenza, guarda solo l’ombra proiettata e non la “sostanza”.
Anche la politica – sia pure nel modestissimo contesto di un’attualità “debole” incarnata da “rappresentanti” privi di vera “rappresentanza” (perché cooptati nelle liste bloccate e nominati dalle segreterie dei partiti) e sia pure sempre contraddistinta da una certa “veridicità” propagandistica – ha l’obbligo di recuperare le ragioni della “verità”, cioè del rigore sistematico della lettura della realtà.
Questo proprio per evitare che la disinformazione, germe diffuso nella nostra società da potenze straniere autarchiche se non dittatoriali, in uno alla crisi della democrazia, possa dar luogo a quel corto circuito descritto da Thomas Mann, che ha poi prodotto il suicidio collettivo di un continente.
Giuseppe Fauceglia
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