Il garbuglio europeo (di Cosimo Risi)

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A Bruxelles i tempi si allungano per dare il nuovo governo all’Unione. Nel frattempo: Dmitrij Medvedev minaccia di radere Kiev al suolo; Vladimir Putin più modestamente di rispondere militarmente alla NATO se i suoi missili, da minaccia britannica, colpiscono il territorio russo; Benjamin Netanyahu nasconde la strategia per Gaza perché impegnato a guerreggiare con Hezbollah; i sondaggi provvisori danno Kamala Harris in vantaggio su Donald Trump ed è la prima volta nella cronaca di queste elezioni.

Il mondo corre non si sa verso quale approdo, di certo sfavorevole alle sorti europee, e l’Unione si balocca nel suo arcaico rituale. Arcaico nel senso della nostra tradizione legalitaria, noncuranti che il Trattato vigente risale nell’elaborazione ai primi Duemila, quando le relazioni internazionali erano diversamente orientate. All’epoca si guardava alla Russia come partner strategico, al Mediterraneo come destinatario di una specifica strategia, alla Cina da inglobare nel sistema finché si limitava a commerciare le merci a basso prezzo.

Ursula von der Leyen, rieletta alla guida della Commissione con scarso entusiasmo e ampia maggioranza, rinvia a martedì prossimo la presentazione della squadra. Il rinvio può preludere ad un altro, se gli organi parlamentari la contesteranno pregiudizialmente.

Il prestigio di Ursula è scosso dalle prime decisioni dei Governi. Chiede che ciascuno stato membro presenti una rosa di due candidati alla Commissione con almeno un nome femminile, la maggioranza presenta un nome secco e maschile. E così solo un terzo della prossima Commissione sarà al femminile, con un arretramento rispetto a Ursula 1 ed al complesso normativo e politico dell’Europa.

L’altra falla è la modesta rappresentanza delle posizioni socialiste. Il gruppo socialista e democratico, alla testa la malconcia SPD del Cancelliere Olaf Scholz, è stato fra i grandi elettori di Ursula. Il gruppo ha incamerato la nomina di Costa alla guida del Consiglio europeo, ma vede scomparire dal Berlaymont il lussemburghese Nicolas Schmitt, il candidato di bandiera. Il Granducato di origine ha infatti designato un altro Commissario.

Il gruppo dovrebbe poi tollerare un incarico di rilievo per il candidato italiano, il Ministro Raffaele Fitto, esponente del Governo di destra che ha votato, con la Presidente Giorgia Meloni, contro Ursula von der Leyen al Consiglio europeo e replicato il no, con il gruppo ECR, al Parlamento europeo.

Fitto è personalmente accreditato di fede europeista per essere stato parlamentare europeo, ma in seno ad un gruppo diverso dall’attuale, e per il passato democristiano. Essere democristiano-popolare pare essere una garanzia “a prescindere”, per dirla con Totò. Resta il fatto che, agli occhi della maggioranza del gruppo socialista, ma non degli esponenti del PD, Fitto è membro di Fratelli d’Italia: e cioè di un partito dichiaratamente sovranista e unico oppositore del Governo Draghi.

E qui torna in gioco Mario Draghi. Il suo Rapporto sulla competitività europea coglie un sospetto consenso generale, persino da parte dei quasi ex-sovranisti italiani. Fa eccezione il liberale Ministro tedesco delle Finanze: mette subito le mani avanti riguardo alla prospettiva, vagheggiata da Draghi, di reperire 800 miliardi di euro anche con l’emissione di debito europeo. In pratica rendere permanente lo strumento del Recovery Plan.

Fratelli d’Italia dichiara che l’agenda Draghi somiglia all’agenda governativa, l’autore è invitato a Palazzo Chigi a misurare il grado di reciproca collaborazione. L’invito è bruciato sul tempo da Marina Berlusconi. Di qui l’ansia da complotto, per la possibile saldatura del potere finanziario della Famiglia con il prestigio internazionale dell’ex Banchiere centrale.

Le vicende italiane si intrecciano con le europee in maniera inestricabile. Il garbuglio richiede una grande abilità tattica da parte di Ursula: disinnescare la partita di genere; riconoscere il ruolo dell’Italia in quanto paese fondatore ma senza sconvolgere la maggioranza che l’ha votata; non mortificare Francia e Germania, i cui dirigenti a casa loro sono messi a mal partito; non trascurare lo sguardo al mondo di Victor Orbán, prepararsi alla vittoria di Trump e sperare in quella di Harris.

Tutto questo il 17 settembre?

di Cosimo Risi

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