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Qualche riflessione sull’attualità dell’insegnamento liberale (di G. Fauceglia)

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Il credo neoliberale nasce, sotto le presidenze di John Kennedy e di Lyndon Johnson, nei settori della destra americana ostili all’aumento dei poteri dello Stato Federale, per poi radicarsi in Gran Bretagna, dove conobbe il periodo di maggior successo con Margaret Thacther ed affermarsi, nello stesso periodo, negli USA con Donald Reagan.

La valorizzazione dei principi del libero mercato, con l’affermazione di logiche competitive, ha trovato una concreta realizzazione di un vasto programma di privatizzazioni che ha interessato in particolare proprio questi Paesi.

Si tratta di una tendenza che, specie a seguito della pandemia, sembra aver ceduto il passo al sempre più crescente e significativo intervento pubblico in economia, spesso ispirato (specie in Italia, con il c. d. superbonus in edilizia) da misure non selettive e gravanti sul debito pubblico (dunque, sulle future generazioni).

La riflessione richiederebbe maggiori approfondimenti, ma oggi un manifesto dell’idea liberale avrebbe molte più sfumature che nel passato, considerato che il processo tecnologico, l’innovazione finanziaria e la stessa modernizzazione delle reti di trasporto hanno finito per mutare i contorni del mondo economico, al quale tradizionalmente si rivolgeva il liberalismo classico. Di conseguenza, oggi non può dirsi che esista un mercato in astratto, ma tanti mercati, che necessariamente richiedono una redistribuzione della ricchezza.

Quello che muta, come acutamente osserva Alberto Mingardi, è il punto cardinale rispetto al quale il presupposto: il liberalismo classico, che assume l’individuo come misura di tutte le “cose”, si scontra con la politica dell’identità che ragiona “per gruppi di individui”, ad esempio, a destra la nazione, e a sinistra la comunità Lgbtq. Ciò ha influenzato anche le dinamiche del confronto politico in cui gli argomenti utilizzati dagli avversari diventano un’offesa alle altrui identità.

Ciò nonostante, una “idea” liberale deve abbandonare le tentazioni costruttivistiche e privilegiare iniziative che in Italia sono da tempo al centro di chi immagina un’evoluzione liberale del Paese (riforma della giustizia con la separazione delle carriere, autonomia differenziata che tuteli sempre i bisogni essenziali e lo sviluppo delle aree più depresse, il premierato) come reazione ad uno status immutabile e ritenuto finanche non riformabile.

Si tratta di fermare il potere assoluto, come scriveva, con indubbio tratto di attualità, Luigi Einaudi “In La Rivoluzione liberale. Scritti”, ed. Nino Aragno, 2024 (che ristampa gli articoli pubblicati da “La Rivoluzione liberale” di Gobetti): “l’individuo avrà benefici a condizione che bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che di lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo”.

Si tratta anche di contrastare un potere premuroso e paternalistico che impedisce ai singoli di maturare le proprie scelte, prospettando finanche la inutilità della loro condotta, presentata sempre come insufficiente. Il potere della “forza” e quello del “paternalismo” restano facce di una sola medaglia, e l’”essere liberali” contraddistingue l’operato di chi, con l’ottimismo della volontà, intende fermare queste manifestazioni del potere, a qualsiasi livello, anche locale.

Se il liberale guarda all’esercizio del potere ritiene che esso è in grado di corrompere anche gli uomini più validi, che circondati da servitori, sempre proni a dare loro ragione, si abituano a considerarsi infallibili e indispensabili. Insomma, una lezione, quella di Einaudi, della quale anche oggi dovremmo sempre tener conto.

Giuseppe Fauceglia

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