La colpa, se così si può dire, di Chiara Colosimo è ben nota: dopo 32 anni di silenzi dolosi o colposi è riuscita a desecretare, grazie alla collaborazione della procura nissena, i documenti sulle indagini che, immediatamente prima dell’attentato, Paolo Borsellino stava conducendo sulla morte di Giovanni Falcone. Invero, la Procura della Repubblica di Caltanisetta ha indagato ed approfondito proprio le piste investigative seguite da Borsellino e Falcone, che parrebbero condurre al complesso ed articolato rapporto “Mafia-Appalti”.
In questo contesto, dopo anni di depistaggi e false “verità” (mai ossimoro è più rappresentativo), oggi si assiste al lento sgretolarsi di quelle ipotesi investigative che avrebbero condotto alla presunta trattativa “Stato-Mafia”, già smontata – pezzo dopo pezzo – dalle numerose sentenze di questi ultimi anni.
Appena sono stati rimossi i veli sul dossier “Mafia-Appalti”, di cui non si conoscono ancora gli effetti e le conseguenze, è subito partito il fango mediatico, uscito da qualche dossier nascosto, che ha colpito Chiara Colosimo, dichiarata colpevole di aver avuto (per sua sventura) un vecchio zio, per altro dimenticato da oltre quindici anni, accusato di presunti rapporti con la “ndrangheta”.
Si tratta del ben noto “reato parentale”, per cui, in barba di ogni principio giuridico, il solo fatto di essere parente di un soggetto attinto da indagini sulla criminalità organizzata, già di per sé resta indice di colpevole connivenza. Per altro, l’attacco mediatico resta tanto più sospetto, se si pensa che solo qualche settimana fa l’on. Colosimo aveva chiesto, nelle sue funzioni istituzionali, un chiarimento agli ex procuratori antimafia Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato (oggi, non a caso, parlamentari dei 5Stelle) sulle indagini eventualmente da loro svolte sul rapporto “Mafia-Appalti”, avendo questi speso non solo le loro energie ma pure rilevanti fondi pubblici nel seguire, con tanto di utile fragore mediatico, la pista della trattativa “Stato-Mafia”.
Questo attacco parrebbe presentarsi come la difesa di quella antimafia ufficiale o dei professionisti dell’antimafia (di cui già parlava Leonardo Sciascia in un articolo su “Il Corriere della Sera” nel 1987), oggi tanto cara a qualche quotidiano, che riproduce quel “gioco troppo grande” menzionato, con cognizione di causa, proprio da Giovanni Falcone nel libro “Cose di Casa Nostra”, che descriveva la rete di complicità tra mafia, politica ed imprenditoria.
Si tratta di una feroce delegittimazione, di cui con assordante silenzio si è fatto carico il PD, a fronte del tentativo di restituire alla Commissione Antimafia il ruolo di organismo politico e di controllo, come alla stessa affidato dalla norma costitutiva. Un attacco al tentativo di leggere in un’ottica diversa rispetto a quella preferita da una certa magistratura inquirente e da una certa stampa, ma platealmente sconfitta dalle sentenze, le vicende che portarono alla strage di Capaci e di via D’Amelio.
Insomma, un altro capitolo oscuro di quel contrasto che vede contrapposte le istituzioni parlamentari ad una certa magistratura (per fortuna minoritaria), disposta ad “applicare la legge per i nemici e ad interpretarla per gli amici”, come si ripete nella vulgata che descrive, con grave nocumento proprio alla indipendenza e all’autonomia della stessa magistratura (a cui tutti noi teniamo per la stessa solidità del sistema democratico), la caduta di credibilità che questa conosce dopo il già dimenticato caso Palamara.
Con un avviso al PD e a quel che resta dei 5Stelle di marca contiana, veri e propri fiancheggiatori, se non forse ispiratori dell’aggressione mediatica: la vittoria del centro-destra in Liguria e quella di Donald Trump negli USA (a prescindere dal giudizio sul personaggio) dovrebbe aver insegnato che con le campagne mediatico-giudiziarie non si vincono le elezioni.
Giuseppe Fauceglia