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L’ultima missione di Blinken (di Cosimo Risi)

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Se l’aggettivo non fosse abusato, si potrebbe scrivere che c’è un tratto eroico nei tentativi di Antony Blinken per riportare la pace in Medio Oriente. O almeno ripristinare una qualche stabilità. Nulla da fare. Il Medio Oriente è testardo, respinge le migliori intenzioni del Segretario di Stato USA che, più di qualsiasi predecessore salvo forse l’ebreo tedesco Henry Kissinger, avverte per quella terra ed in particolare per Israele un sentimento che supera l’impegno diplomatico.

Ebreo con vari deportati fra gli ascendenti, formazione francese, Blinken vola in Medio Oriente così tante volte da ottobre 2023 che le cronache stentano a seguirlo. Il suo afflato umanitario non trova rispondenza presso gli interlocutori. Fino ad arrivare ad un singolare ribaltamento delle posizioni. Non è l’alleato maggiore a dettare la linea, ma è lo junior partner, per dirla con linguaggio alla moda, a definire ciò che conviene, non importa quello che Washington pensi. Tanto l’Amministrazione Biden è agli sgoccioli, alla Casa Bianca sta per insediarsi l’amica Amministrazione Trump.

Non che Joe Biden e Kamala Harris, per la sua breve apparizione in prima linea, siano poco amici di Israele. È che nutrono la speranza di introdurre elementi di diritto internazionale umanitario in una situazione che il diritto internazionale lo ignora nel suo complesso.

Hamas, in primo luogo, con la strage di civili israeliani e la presa degli ostaggi, parte dei quali finiti da condizioni insopportabili di prigionia. Israele, in secondo luogo, con la reazione sproporzionata: dal diritto all’autodifesa fino alle accuse di genocidio (il Sudafrica davanti alla Corte Internazionale di Giustizia) e di crimini di guerra (il Procuratore della Corte Internazionale di Giustizia avverso alcuni suoi dirigenti).

Subito dopo le missioni di Blinken, l’interlocutore israeliano si affretta a precisare che i desiderata degli Americani tali devono restare. La situazione sul campo è determinata dalle valutazioni di sicurezza da parte di Benjamin Netanyahu: in prima ed ultima battuta. E se i Ministri o gli alti ufficiali non ci stanno, la porta d’uscita è sempre aperta.

L’orologio mediorientale corre veloce. In poco più di un anno il panorama è cambiato. La presenza iraniana, invasiva in Libano, Siria, Yemen, Iraq, si è andata affievolendo. Il regime teocratico a Teheran subisce sconfitte sul campo e danni di immagine. Non riesce né forse vuole contrastarli. Anzi, li accredita perseguendo persino la cantante che si esibisce in pubblico senza l’hijab. È teso fra la prova di orgoglio nel sostenere le milizie alleate e il timore di affrontare Israele a muso duro, con l’armata americana schierata a sua difesa.

La dirigenza iraniana è divisa fra chi perora la prova di forza e chi tenta la carta dell’appeasement con gli Stati Uniti. Per rivitalizzare il Piano d’Azione sul nucleare che proprio l’Amministrazione Trump I denunciò? Per addivenire ad una nuova intesa gradita al Trump II? Per alleggerire le sanzioni internazionali?

Israele ha smembrato Hamas, la punta di lancia iraniana nel mondo sunnita palestinese. Ha disarticolato Hezbollah in Libano, la milizia sciita più affine a Teheran, impedendole di inviare uomini in Siria a difesa di Bashar al-Assad. Sta smantellando l’apparato militare siriano, a cominciare dalle fabbriche e dai depositi di armi chimiche, perché non finisca nelle mani del gruppo al potere a Damasco. Bombarda le postazioni degli Houthi in Yemen per fare cessare la minaccia alla navigazione verso Suez.

E dunque Antony Blinken consuma l’ultima missione avvicinando lo Hayat Tahir al-Sham, la milizia siriana di Abu Mohammad al-Jolani, per stabilire se derubricarla dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Al Dipartimento di Stato sta per passare il testimone a Marco Rubio. Anch’egli dichiarato amico di Israele ma senza quel legame affettivo che cementa l’operato di Blinken e, insieme, lo condiziona. Buona fortuna al suo estremo appello: “La missione a Gaza è conclusa, è il momento della tregua”.

di Cosimo Risi

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