ma qualcosa ancora qui non va”.
Il Nostro ascolta Lucio Dalla su You Tube e insieme canticchia le parole ad alta voce nella parodia domestica del karaoke. Gli viene da pensare che non si scrive più a mano, si batte sulla tastiera nel linguaggio sincopato di whatsapp con le faccine a commento degli stati d’animo. Lui appartiene alla generazione pre-informatica, si trova a malpartito con la nuova tecnologia.
Chiedere aiuto ai figli, proprio no, già lo ritengono superato perché non conosce Tony Effe. Gli piace Elodie, quella sì, la guarda con la lingua penzoloni come Fantozzi davanti alla Signorina Silvani. Se poi i figli capiscono che non se la cava con il cellulare lo rottamano. Come Renzi con D’Alema, più o meno, anche se Renzi si è auto-rottamato a sua volta. La rottamazione del rottamatore: è la nemesi, è Voldemort contro Harry Potter.
Il Nostro vorrebbe lanciare un segnale non banale, un messaggio benaugurale alto. Non capisce perché la nobiltà debba essere alta o non essere. I tappi, lui preferisce considerarsi un diversamente alto, non possono avere l’onore del lignaggio? E allora Napoleone? E Fanfani?
La mente continua a girovagare, le sue idee sono poche e rigorosamente confuse. Ama il genere epistolare. Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar è un capolavoro di finzione letteraria. La sua lettera va ai figli ed ai congiunti tutti. Intende declamarla alla fine del cenone di fine anno. Li costringe in casa con la promessa che distribuirà doni plutocratici. In aggiunta s’impegna a chiudere il cenone per le 23, a costo di fissare le lancette della sveglia all’ora di Greenwich. E così i figli, per mezzanotte, potranno scendere in strada a sparare con le pistole.
Togliete i proiettili dal caricatore, raccomanda, anche quello in canna. Va bene il ferito da eccesso alcolico, ma il morto da sparo accidentale proprio no. Neppure se a cadere fosse l’immigrato clandestino che vende i fiori al ristorante.
Per l’epistola che ha in mente cerca le parole giuste, convincenti e non pompose: bisogna toccare il tema della guerra senza ricorrere alla pietistica rappresentazione dell’orrore. Dove prendere l’ispirazione?
Ci siamo: ecco il primo volume della saga M di Antonio Scurati. La fase nascente del Regime, la retorica nazional-guerresca, gli Arditi delusi dal dopoguerra, l’irredentismo di Fiume, la fiammeggiante eloquenza di D’Annunzio.
A quella potenza verbale occorre tornare, semmai attualizzando il discorso con elementi anglofoni. Un qualcosa del tipo “tears and blood, we’ll never surrender”. La citazione dal discorso di Winston Churchill viene a fagiolo. Sudditi di Sua Maestà, vi prometto lacrime e sangue. Resisteremo ovunque, in terra e in mare, sull’isola e nelle colonie. Non ci arrenderemo mai.
Bisogna assuefarsi all’idea della guerra. No, sarebbe un messaggio quietista. Quello giusto è: bisogna addestrarsi all’arte della guerra. E già la parola arte è pregna di significato. C’è dell’estetica, c’è dell’ethos, nell’evocare le virtù salvifiche della pugna.
Nel pomeriggio di Capodanno, quando i figli torneranno sfatti dai bagordi notturni, imporrà la visione del Gladiatore. Il momento topico è quando Massimo Decimo Meridio, al secolo Russel Crowe, prima di diventare quel ciccione barbuto che rotola da uno studio TV all’altro, incita i suoi “al mio segnale scatenate l’inferno”. Lo spirito del gladiatore ci vuole ad esaltare il nostro maschio cipiglio. A sottolineare che siamo sintonizzati sull’attualità.
di Cosimo Risi
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