Ambedue hanno i titoli per l’incarico : parlamentari di vecchio corso e per Tajani pure un passaggio alla Commissione europea con funzioni di Vice Presidente. Chiunque prevalga, conosce il posto e gli ingranaggi. I loro sono due profili tanto alti quanto insoliti nel panorama della politica italiana che, fino a qualche tempo addietro, mandava a Strasburgo figure di secondo piano o personalità di spicco che pensavano ad altro. Di qui l’alto tasso di assenze dalle sedute e la scarsa partecipazione al dibattito europeo. Con Tajani e Pittella l’Italia racconta un’altra storia.
I soli candidati per modo di dire. Ci sta, o meglio ci stava, il terzo incomodo, il liberaldemocratico belga Guy Verhofstadt. Il candidato più indefessamente europeista del gruppo è però scivolato sulla buccia di banana dell’apertura del Gruppo ALDE ai deputati del M5 Stelle. Un’apertura durata neppure lo spazio d’un mattino, cosicché i 5 Stelle sono subito tornati con i « brexisti » del britannico Farage, ma tanto è bastato per appesantire la candidatura di Verhofstadt.
La corsa al Parlamento europeo sembrerebbe di modesto interesse per l’opinione pubblica, altri essendo i problemi che interessano alla gente. Almeno questa è la vulgata che si vuole diffondere. E invece non è così. Lo dice bene Schulz nell’intervista del commiato (La repubblica del 14 gennaio). Brexit apre una breccia nel muro europeo che può crollare quando meno ce lo aspettiamo. Il suo impatto è ancora sottovalutato. Dimostra la possibilità di negare il dogma della costruzione europea: il fatto che, nel corso degli anni, l’Unione non fa che crescere, anzi deve contenere il fenomeno dell’allargamento ad evitare che nuovi paesi entrino senza amalgamarsi col resto. Si pensi soltanto al caso della Turchia, che negozia da anni l’adesione e non supera mai i preliminari.
Là dove non riesce Brexit, ecco intervenire il flusso lungo della crisi finanziaria, che sembra superata ovunque ma non in certi stati membri più esposti. E con la crisi finanziaria la deflazione e il mancato sviluppo. Per non parlare delle emergenze esterne: quella dei migranti in primo luogo. Hai voglia a dire che la risposta alle crisi è europea o non è, che il riflusso nel “particulare”, e cioè nella dimensione nazionale se non locale, contrasta con l’apertura delle relazioni internazionali. Hai voglia infine a notare che i populismi, questo quasi neologismo che copre movimenti molto diversi fra loro, si alimentano dalle mancate risposte della politica raziocinante. Tutte le ricette che vengono proposte o trovano cuochi adeguati nelle istituzioni europee o finiscono per scimmiottare le grandi cucine proponendoci pietanze mediocri se non immangiabili.
L’Europa deve trasformarsi da articolo di fede in pratica sana. La liturgia delle nomine non basta, anche se l’arte del compromesso aiuta anche a Bruxelles. Se infatti al Parlamento europeo prevale il candidato popolare, avremo le tre istituzioni politiche (Parlamento, Consiglio europeo, Commissione) guidate da un popolare. Si romperebbe lo schema compromissorio che vuole la ripartizione dei posti apicali fra popolari e socialisti – democratici. Sempre in questa ipotesi, dovrebbero finire in mano socialista la presidenza del Consiglio europeo (l’attuale Presidente Tusk è in scadenza di mandato) oppure la presidenza della Commissione (l’attuale Presidente Juncker ha il mandato in scadenza nel 2019). I giochi continuano anche dopo il 17 gennaio.
Cosimo Risi
Commenta