Al Consiglio europeo del 9 marzo 2017 la delegazione polacca è stata la sola ad opporsi alla conferma, per altri due anni e mezzo, del polacco Donald Tusk alla presidenza dello stesso Consiglio europeo.
Cade d’un colpo il dogma che vuole la delegazione d’uno stato schierata a sostegno del candidato di casa. Sulla ragione di patria prevale la ragione politica.
Il governo polacco si profila come il capofila della destra sovranista europea e non può gradire il connazionale Tusk, che ne contesta la politica ed è benvoluto dagli stati membri europeisti.
Alla vigilia del vertice s’ipotizzava che gli stati membri avrebbero lasciato cadere la candidatura Tusk a favore di un esponente proveniente dal PSD. Il Partito Socialista e Democratico, cui aderisce l’italiano PD, rivendicava infatti un posto apicale dopo che anche il Parlamento europeo, con Antonio Tajani, era finito in mano al PPE, i popolari europei fra cui militano i nostri NCD e Forza Italia.
Così non è stato: con la conferma di Tusk al Consiglio europeo e fermo restando il popolare Juncker alla Commissione, tutti gli incarichi di vertice sono detenuti dai popolari. Un pieno che premia oltre misura il partito di maggioranza relativa e potrebbe offuscare la campagna elettorale dei socialdemocratici in Germania e dei socialisti in Francia. Staremo a vedere.
Per chi sta fuori dal gioco europeo, questo meccanismo a incastro appare oscuro. Una decisione è una decisione, quale che sia il voto che la sostiene. Le alchimie fra stati membri e partiti appaiono futili al cospetto dei grandi temi che preoccupano l’opinione pubblica: la disoccupazione, il terrorismo, le migrazioni, eccetera. Una risposta così semplice a problemi così complessi sarebbe però fuorviante.
L’Unione europea a Ventisette è chiamata a misurarsi con la complessità del mondo, in questa impresa deve impiegare la strumentazione più adeguata, non può lasciarsi bloccare dai veti ad ogni passo. L’Unione è come il ciclista su pista: non può restare surplace oltre il tempo necessario a fare partire per primo l’avversario e mettersi a ruota. L’avversario d’Europa è il mondo esterno che non necessariamente ci vede di buon occhio.
La prossima prova ad attendere i Ventisette si terrà in Campidoglio. Il 25 marzo, alla cerimonia per il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma (1957 – 2017), i capi di stato o di governo dovrebbero adottare la dichiarazione del rilancio. Sulla bozza del documento già ora si registra la riserva polacca.
Varsavia respinge l’idea dell’Unione a più velocità o a cerchi concentrici. Finge di ignorare che le integrazioni differenziate già ora vigono: si pensi soltanto alla zona Euro, allo spazio Schengen, presto alle cooperazioni rafforzate in materia di difesa.
Al vertice di Versailles dei Quattro (Francia, Germania, Italia, Spagna) l’idea delle integrazioni differenziate ebbe il plauso dei presenti, tutti manifestamente intenti a proseguire verso l’integrazione più stretta senza lasciarsi condizionare dalla ricerca del consenso ad ogni costo. La Polonia, rimasta isolata nell’opposizione a Tusk, confida ora di ritrovare i compagni di strada del Gruppo di Visegrad (Cechia, Slovacchia, Ungheria).
La Cancelliera federale maliziosamente rammenta loro che l’integrazione comporta le politiche di coesione. In soldoni: il trasferimento di ingenti risorse dal bilancio europeo agli stati membri meno sviluppati. Tali essendo quelli di Visegrad, il semplice calcolo dei costi – benefici dovrebbe indurli a più miti consigli.
Si stanno mettendo in campo tutti gli argomenti per isolare il caso britannico ed evitare che Brexit faccia proseliti. Il Regno Unito può vagheggiare la dimensione della Global Britain e del Commonwealth. Alle frontiere del Gruppo di Visegrad ci sta la Russia, non proprio un vicino comodo.
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