Rischia il carcere chi uccide il cane di piccola taglia anche se viene aggredito

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Quante crudeltà avvengono ancora sugli animali e quante volte si uccidono povere bestiole per motivi assolutamente futili, omettendo di ricordarsi che non solo si compie un gesto moralmente deplorevole, ma che pure si possono rischiare dure sanzioni, anche penali.  Su tutte quelle stabilite dall’articolo 544 bis, che è stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189, avendo statuito una pena variabile da un minimo di quattro mesi a due anni di reclusione per chi uccide un animale per crudeltà o senza necessità.

Tuttavia, la stessa legge ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale di uccidere. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter disp. att.). La norma è stata introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva per quanto riguarda gli animali, che però non ricevono direttamente tale copertura legislativa, rimanendo dunque ferma la tradizionale impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali.

Di conseguenza con la norma in questione risulta garantito il rispetto del sentimento per gli animali, inteso come sentimento di pietà. In tale ottica, con una sentenza, la n. 37426/17 pubblicata in data odierna, la Corte di Cassazione penale ha ricordato che non si può uccidere un cane di piccola taglia giustificando l’accaduto con un’aggressione da parte dell’animale. In questi casi risulta, infatti, inutile invocare la legittima difesa. Dovrà, quindi, scontare sei mesi di reclusione un pastore che, adducendo di essersi sentito minacciato da due cagnolini, li avrebbe uccisi e gettati in un fiume. L’imputato era stato già stato condannato dal Tribunale di Pisa, con una sentenza che era stata confermata in toto dalla Corte d’Appello di Firenze. Quindi, la Cassazione nel dichiarare inammissibile il ricorso del pastore ha messo la parola fine alla vicenda. In particolare, a inchiodare il reo, le sue stesse dichiarazioni al padrone delle due povere bestiole.

Nel corso del giudizio di merito, questi si era difeso sostenendo che gli animali avrebbero potuto spaventare il suo gregge e farle morire per schiacciamento. Nel ricorso aveva dedotto non solo che i giudici di merito avevano ritenuto provato la sua colpevolezza solo sulla base delle dichiarazioni de relato rilasciate alla persona offesa che lo avrebbe, peraltro, coartato psicologicamente ma, inoltre, ha invocato la legittima difesa e la mancata concessione delle attenuanti. Tuttavia, le tesi difensive non hanno persuaso i giudici di legittimità che hanno respinto ogni doglianza dell’imputato.

Sul secondo motivo di ricorso, infatti, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto corretto il ragionamento della Corte d’appello che aveva ritenuto poco credibile la tesi della legittima difesa «laddove si consideri che gli animali uccisi erano di piccola taglia e scarsamente aggressivi, come confermato dai testimoni assunti in dibattimento, non potendo in alcun modo rappresentare un pericolo per un gregge ben protetto dal pastore e dai suoi cani; a ciò si aggiunge, come evidenziato dalla corte d’appello, che una simile ricostruzione non può essere meramente ipotetica in assenza di precise indicazioni in tal senso tempestivamente da fornirsi dall’imputato, che tuttavia mai avrebbe articolato in sede processuale una simile versione.

Appare quindi evidente che la censura difensiva in ordine al mancato riconoscimento della legittima difesa appare del tutto priva di pregio, in assenza degli elementi concreti ed oggettivi da cui poter desumere l’esistenza delle relative condizioni». Una sentenza esemplare, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che costituirà un ulteriore deterrente per quanti si ostinano in gesti gravi e crudeli come quelli dell’uccisione “gratuita” di animali, che come associazione, fra le nostre molteplici attività, da anni combattiamo anche nelle aule giudiziarie.

Foto di archivio tratta da internet

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