Gerusalemme (Al Quds, la santa, per gli Arabi) si ritrova al centro della contesa mediorientale facendo passare in secondo ordine le altre crisi che affliggono la regione.
Non la Siria né il Califfato né lo Yemen. Gerusalemme riguadagna la scena e sembra dire che qui si combatte “la madre di tutte le battaglie”: qui si scioglie il grande enigma mediorientale o, verosimilmente, non si risolve.
La decisione di Donald Trump di riconoscere la città come capitale dello Stato di Israele consegue all’altra decisione di trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. E d’altronde sarebbe normale in un paese normale che la sede diplomatica stesse nella capitale. In Israele la situazione è diversa.
La totalità delle Ambasciate ha sede a Tel Aviv in omaggio alla prassi internazionale, sancita dall’ONU, che la questione della capitale dello Stato d’Israele sarebbe risolta nel quadro del negoziato di pace fra Israeliani e Palestinesi.
La legge israeliana, che riconosce Gerusalemme come capitale indivisibile ed eterna dello Stato, attiene soltanto a Israele. La comunità internazionale resta in attesa degli esiti del negoziato di pace, che iniziò nei primi anni novanta del XX secolo e che da allora attende un’onorevole prosecuzione.
Nel frattempo la prassi internazionale riconosce di fatto che Gerusalemme è la capitale d’Israele. Tutti i dignitari in visita nel paese incontrano quelle autorità nelle loro sedi istituzionali: a Gerusalemme appunto, dove l’intero Gabinetto (tranne il Ministero della Difesa), il Capo dello Stato, la Knesset hanno sede. Ma è sempre mancato il riconoscimento formale.
Con la sua decisione, Trump dà voce ad uno stato di cose che tutti accettavano pur senza ammetterlo formalmente. Si inserisce in un filone di pensiero che rimanda alla decisione che il Congresso americano adottò nel 1995 di trasferire la sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme.
Trump l’aveva promesso nella campagna elettorale, l’aveva ribadito all’elezione nominando un Ambasciatore che si incaricasse del trasloco, l’aveva anticipato ai principali dirigenti dell’area compreso il Presidente palestinese.
Alle critiche che gli vengono da più parti egli può replicare: ve l’avevo detto, la decisione faceva parte del programma elettorale mio come dei miei predecessori, solo che io, a differenza loro, adempio alle promesse. Una prova di coerenza politica ad uso interno che poco si cura delle conseguenze sul piano esterno. Le conseguenze già si vedono con la solita teoria di proteste anche violente, con la statistica delle vittime che è facile prevedere in aumento.
Il trasloco non sarà facile. La prima opzione di chiamare “Ambasciata” l’attuale Consolato Generale pare non funzioni. La sede del Consolato è troppo angusta per ospitare anche l’Ambasciata. Chi è stato a Tel Aviv conosce l’immensità del complesso diplomatico che dovrà riprodursi se non ampliarsi nell’altra città. Se la nuova sede va costruita e protetta con adeguate misure di sicurezza, i tempi si allungheranno di molto. Il trasloco effettivo può attendere. Conta ora l’effetto di annuncio.
La politica estera americana mostra il volto della determinazione. Gli Stati Uniti decidono in carenza del processo di pace e noncuranti delle riserve ONU. I commentatori ora s’interrogano se la mossa di Trump finisca per affossare il negoziato di pace o se dia la scossa alle parti perché prendano atto del nuovo approccio e si diano da fare. Gli Stati Uniti tornano sulla scena mediorientale finora dominata dalla Russia.
Cosimo Risi
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