Morte a Gaza di venerdì (di Cosimo Risi)

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E’ un appuntamento lugubre, quello che scatta di venerdì a Gaza. Dopo la preghiera rituale, migliaia di abitanti  manifestano per le strade a piedi e su mezzi di fortuna.

Alcuni si avvicinano minacciosi alla barriera che separa la Striscia da Israele.

Dall’altra parte, a ridosso di un terrapieno per avere la vista sgombra, stanno distesi i cecchini delle forze armate che hanno l’ordine di colpire chiunque tenti di valicare la barriera.  Quest’ultimo venerdì è andata in scena la seconda manifestazione. Rispetto alla prima ha registrato un minore numero di vittime.

Lo scambio delle accuse è scontato. I dirigenti palestinesi accusano Israele di brutalità nella repressione dei moti, che essi pretendono pacifici e volti a rivendicare la terra. I dirigenti israeliani accusano Hamas, che dirige la Striscia, di strumentalizzare la rabbia della popolazione verso i tentativi di sfondare la barriera e preparare attentati terroristici: la repressione altro non sarebbe che la prevenzione di guai peggiori.

L’Autorità Palestinese, che pure avrebbe concluso un’intesa con Hamas per tornare nella Striscia, di fatto se ne tiene lontano. Dalla Cisgiordania condanna la repressione ma non eccede in solidarietà verso Hamas.

La protesta, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe durare fino a metà maggio. Il 14 maggio Israele celebra i primi settanta anni della creazione dello stato (Tel Aviv, 1948), il 14 maggio i palestinesi commemorano la “Nakba”, la catastrofe che a quella creazione seguì.

Una lettura più opposta dei fatti storici non è immaginabile e questo spiega almeno in parte le ragioni della protesta. Se la repressione continuerà a bassa intensità, senza cioè portare le forze armate d’Israele dentro Gaza, e se la protesta proseguirà a ritmo settimanale, di qui a maggio saremo chiamati ad aggiornare la triste contabilità delle vittime.

Di fronte a fatti del genere l’osservatore esterno resta sconcertato. Si chiede come sia possibile che un conflitto duri così a lungo: settanta anni appunto. Nessuna mediazione diplomatica è finora riuscita a spegnere la miccia, che cova in silenzio, pronta a riaccendersi alla minima occasione.

Il filone palestinese pareva marginale rispetto a quello della sicurezza regionale. L’irrompere del DAESH – ISIS aveva catalizzato l’attenzione. La sua parziale sconfitta non determina la calma.

Sembrava che l’Iran fosse la minaccia principale per gli arabi sunniti del Golfo. Il sostegno di Teheran al regime di Assad, la singolare alleanza con Russia e Turchia per stabilizzare la Siria sono motivi di inquietudine per Israele e per l’Arabia Saudita. Ecco invece che la questione palestinese torna a fare parlare di sé. Nella maniera abituale della protesta che si scontra con la repressione.

Il momento non è casuale, a parte la ricorrenza del settantesimo. Sempre a maggio il Presidente americano dovrebbe inaugurare la sede dell’Ambasciata a Gerusalemme. Il gesto è considerato dai palestinesi come una presa di distanza di Washington dalle ragioni arabe: il venire meno di quella presunta equidistanza che aveva fatto degli Usa i mediatori per eccellenza.

Gli accordi favoriti dagli americani che reggono all’urto dell’attualità sono quelli di Camp David fra Israele e Egitto e  della Casa Bianca fra Israele e Autorità Palestinese. Correva la seconda metà del XX secolo ed erano al potere, rispettivamente, i Presidenti democratici Carter e Clinton. Ora si recita un altro copione, sulla scena a interpretarlo incede il Presidente repubblicano Trump.

di Cosimo Risi

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