La casa di arenaria nella Trentacinquesima Strada Ovest è silenziosa. Dalle 9 alle 11, Nero Wolfe, nostro signore e donno, si trastulla con le orchidee nella serra sul tetto, il cuoco svizzero Fritz Brenner è fuori per gli acquisti, io girello nello studio a mettere ordine fra le carte. A proposito, Cari Lettori, sono Archie Goodwin, tuttofare di casa e investigatore in seconda dopo Wolfe il Genio.
Il ciccione è tanto ordinato con i fiori quanto sciatto coi documenti. Li lascia qua e là e adopera pochissimo il PC che troneggia sulla sua scrivania. Conosco la password e ci frugo dentro in cerca dei conti della banca. Calano inesorabilmente verso la soglia critica del fallimento. La curva precipita da quando il più grande investigatore di New York City – la definizione è dello stesso Wolfe – lavora meno del poco che lavorava.
Fra i documenti ne trovo uno dal titolo: “A Brief Diary by Sir John Watson, Surgeon at Baker Street, London”. E’ il nome, John Watson, ad incuriosirmi. Watson non è l’assistente e il sodale di Sherlock Holmes? Perché Wolfe ne conserva il diario? Decido di leggere il file, non è corposo, dovrei farcela nelle due ore che seguono. Wolfe non deve sorprendermi con il suo PC aperto.
A Brief Diary
by John Watson
Baker Street, London
La pendola batte il rintocco della mezzanotte del 31 dicembre 1899. Il datario scatta sul 32 dicembre 1899. L’ho detto a Holmes che il mese di dicembre, fosse anche l’ultimo del secolo XIX, ha invariabilmente trentuno giorni e non trentadue. La risposta del mio amico – a proposito, io che annoto sul diario sono il Dottore John Watson, amico e sodale di Sherlock Holmes e con lui convivente in Baker Street, Londra – la risposta del mio amico, ripeto, è inderogabile.
– Caro Watson, meglio restare nel XIX secolo il più a lungo possibile. Il secolo che verrà sarà breve e finirà con la fine del millennio. Ricordate la profezia dei Maya? Il mondo sarà inghiottito dalla tempesta di polvere, l’uomo libererà nell’atmosfera un’arma letale che distruggerà ogni forma di vita. Sarà una guerra di sole vittime.
– Caro Holmes, da scienziato non potete indulgere alle credenze dei Maya, un popolo primitivo che profetizzava il futuro sotto l’effetto delle droghe. Il secolo XX sarà lungo quanto il XIX. Basta con le superstizioni, aggiorniamo il calendario.
Nulla da fare. Il calendario segna 32 dicembre 1899 e così resta. Mi chiedo cosa accadrà domani. Entrerà il 33 dicembre e via enumerando fino al 1000 dicembre 1899? Basterà allungare il secolo in corso per impedire che il nuovo arrivi?
La digressione serve a dare l’idea di chi sia Sherlock Holmes. Eccentrico come solo il genio può essere, oppiomane, misogino. Ora sta seduto in poltrona. La gamba sinistra a cavalcioni del bracciolo dondola su e giù a seguire un ritmo musicale interiore. A parte il rintocco dell’orologio e il ciuf – ciuf della sua pipa non si odono altri rumori nel salotto al pianterreno di Baker Street.
Fuori la nebbia è grigiastra. Gli opifici di Londra sbuffano vapore dalle ciminiere e l’umidità sale dal Tamigi. Un alone giallastro, smunto come il lampione da cui promana, fora qualche metro di nebbia e proietta le ombre. La sagoma di una carrozza si profila al bordo del cono di luce. Si sentono le ruote rotolare sul selciato. Il cocchiere deve avere dato un colpo di frusta, allo schiocco segue il nitrito di protesta. La carrozza si ferma all’altezza di casa nostra.
Holmes smette di dondolare la gamba sinistra. Si avvicina al tavolo e prende dalla scatola un’altra pallottola di oppio. La manipola per compattarla e la infila nel cannello della pipa. Prende un tizzone dal camino e infiamma il malloppo. Il fumo si libera nell’aria già satura delle boccate precedenti. Ora può sedersi di nuovo. Gli occhi si appannano, il respiro pesante rivela che sta per partire per il sonno oppiaceo. Il batacchio è sbattuto con forza da qualcuno che ha fretta di entrare.
- Watson, andate ad aprire, per favore. Che la smettano di rumoreggiare e disturbare il mio sogno.
Holmes in realtà vorrebbe condividere il sogno oppiaceo con me, me l’ha già chiesto: stanotte raggiungetemi in camera, vi prego.
Apro appena mezzo battente per non disperdere all’esterno il caldo del camino. Sulla porta, intabarrato nel pastrano con le mostrine da poliziotto, il Sergente Purley Stebbins si para di fronte. Tanto grosso quanto alto, cresce di statura grazie al classico cappello da Bobby. I baffi sono argentei di nebbia più che di età. Il portamento è eretto, la stretta di mano è ferma.
– Buonasera, Watson – esordisce col suo vocione cockney. – Devo parlare d’urgenza con Holmes, fatemi entrare ché qui fa un freddo della malora.
Stebbins annusa l’odore di oppio. Conosce la passione di Holmes e non l’apprezza, ma deve subire le abitudini di casa. Va verso la poltrona dove Holmes non dà segni di vita, non fosse che per l’ansare del respiro e il tremolio meccanico del piede sinistro.
Mi guarda interrogativo. Vorrebbe scuoterlo dal torpore, imporgli di ascoltare il messaggio. Lo dissuado dal disturbare Holmes che si sveglierebbe inferocito e per nulla disposto ad ascoltare il messaggio venisse anche dalla Corona. Invito Stebbins a sorbire il tè che gli ho appena versato.
Mi avvicino a Holmes con un bicchiere di brandy in mano. Glielo metto sotto al naso agitando il liquido perché liberi l’aroma. Holmes dà segno di rianimarsi con il brandy. Si stiracchia, si leva in piedi di scatto per accennare qualche passetto.
Parte prima – segue
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