Non è la prima volta nel 2021 che il ritmo quotidiano è scandito dalle armi, non sarà probabilmente l’ultima. A volere andare indietro bisogna risalire agli Accordi di Oslo e Parigi dei primi Novanta. Portarono al reciproco riconoscimento fra Israele e Autorità Palestinese. Da allora sono rimasti incompiuti se non per certi aspetti.
La morte violenta di Yitzhak Rabin (1995) interruppe il processo di pace. I successivi appuntamenti andarono a vuoto, quello ai primi del Duemila fra Ehud Barak e Yasser Arafat, sotto l’egida di Bill Clinton, sembrava preludere ad un accordo su Gerusalemme che non ci fu. Il tema della Capitale era stato lasciato di proposito da parte, troppo spinoso per essere considerato nella trattativa per Oslo.
Da parte ma non dimenticato dalla delegazione palestinese, che insiste per nominare Al-Quds capitale del costituendo Stato di Palestina. E’ la stessa Yerushalaim che la Knesset dichiarò negli anni Ottanta capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele.
Gerusalemme Est, la zona araba, è stata il teatro della crisi attuale: e proprio attorno ad un problema di diritti immobiliari. Torna nelle pretesa di Hamas per la tregua di collegare la situazione a Gaza con quella del quartiere Sheikh Jarrah.
La Città è così carica di simboli che qualsiasi incidente acquisisce rilevanza mondiale. Chiama a raccolta i seguaci delle tre religioni monoteiste, ciascuno a difesa della “propria” Gerusalemme. E’ mirato il passo della Santa Sede di parlare con i sunniti e gli sciiti tramite Turchia e Iran, i due paesi che stanno dietro alle rivendicazioni palestinesi.
Per quanto sia di ascendenza sunnita, Hamas accetta l’aiuto di Teheran. E certamente apprezza che il Presidente turco chiami il Presidente americano a correo nella campagna che Israele ha compiuto nella Striscia. Gli Stati Uniti sono il baricentro del gioco.
L’esigenza di Israele è chiara. Mettere i luoghi in sicurezza dai missili scagliati da Gaza, raffreddare le tensioni fra arabi israeliani e ebrei israeliani nelle città miste, ridurre il potenziale offensivo di Hamas e Jihad. Sullo sfondo si agitano le convulsioni della politica interna. Dopo quattro elezioni in due anni, in seno alla Knesset non si profila una maggioranza solida.
Il tentativo del centrista Yair Lapid di coalizzare destra e sinistra ad escludere il Premier uscente sembra fallire sull’onda della battaglia. Se Netanyahu fosse confermato nell’incarico, otterrebbe l’immunità nei processi che lo vedono imputato.
La dirigenza palestinese cerca il clamore attorno alla proprio causa dopo che questa è stata pretermessa da alcuni paesi arabi con gli Accordi di Abramo. Vuole dissuadere gli altri dal seguire la linea della normalizzazione con Israele.
La violazione del luogo sacro all’Islàm da parte della polizia israeliana è motivo sufficiente alla chiamata in solidarietà. Hamas è deluso dalla decisione dell’Autorità Palestinese di annullare le elezioni in programma. La prospettiva di unificare i poteri fra Cisgiordania e Gaza sotto il controllo di Hamas è stata tale da indurre il Presidente Mahmud Abbas all’ennesimo rinvio.
L’Amministrazione Biden non accorda l’appoggio incondizionato al Premier in carica e intende bilanciare gli Accordi di Abramo troppo esposti a favore di Israele. L’Autorità Palestinese sembra gradire, riceve l’inviato americano a Ramallah, farà da tramite agli aiuti diretti a Gaza.
L’Unione europea è in cerca di una posizione che vada oltre il rituale appello alla moderazione. I suoi argomenti sarebbero convincenti se solo li usasse con convinzione. Sul piano interno fronteggia l’ondata di antisemitismo che si alimenta con l’antisionismo e, specie in Francia, il separatismo islamista. La mediazione americana è il gancio cui appendere le nostre attese.
di Cosimo Risi
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