E’ quanto prescrive la legge ungherese. Al dichiarato scopo di proteggere i minori dalla propaganda a favore di LGTBQ, tutte categorie invise ai benpensanti, il provvedimento interdice la diffusione nelle scuole di materiale didattico che insegni a non discriminarle. Non è la prima volta che l’Ungheria finisce sotto gli strali del Parlamento europeo.
L’Assemblea di Strasburgo adotta a larga maggioranza (per l’Italia contrari Lega e FdI) la risoluzione che critica la legge: “una chiara violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta [dei diritti fondamentali], dai Trattati e dalla legislazione europea sul mercato unico”.
Invita la Commissione a porre in essere quanto in suo potere per contrastarla. L’arma atomica nella disponibilità della Commissione è di sospendere l’erogazione dei fondi ex Recovery Plan teoricamente assegnati all’Ungheria. La sanzione cadrebbe se il paese abrogasse la legge e si allineasse allo spirito e alla lettera del Trattato. Non sembra l’intenzione del Primo Ministro Orbàn.
Della sfida a Bruxelles egli mena addirittura vanto. Trova la sponda negli altri partiti sovranisti, allineati nel ritenere che l’intervento delle istituzioni europee è ingerenza negli affari interni d’uno stato membro oltre che fautore di una visione errata del contesto sociale.
La legge ordinaria ungherese fa seguito all’emendamento costituzionale, parimenti criticato da Bruxelles, secondo cui “la madre è donna e il padre è uomo”.
Qualcuno può chiedersi se sia opportuno che le istituzioni europee si occupino di diritti di minoranze, quali sono o dovrebbero essere le categorie LGBTQ, invece che dei temi generali della ripresa post-pandemia.
Il dibattito non è nuovo, pone in alternativa dialettica i cosiddetti diritti formali con i diritti sostanziali. Come se l’Unione potesse distinguere fra gli uni e gli altri e non perseguire entrambi: tutti facenti parte del patrimonio comune agli stati membri e all’Unione in quanto tale. Lo stato di diritto è un unicum, non può essere sezionato in funzione del peso relativo dei singoli diritti.
La negligenza in materia priverebbe l’Unione di un prezioso argomento nei confronti dei paesi terzi: quello della condizionalità. E cioè: collaboriamo in maniera più o meno intensa a misura del grado di rispetto dei diritti e delle libertà presso i partner.
L’Ungheria conosce bene il pacchetto: da quando avviò i negoziati di adesione nei Novanta del XX secolo e ratificò il Trattato che le consentì, nel 2004, di entrare nell’Unione. A distanza di anni, il glorioso passato si è smarrito nelle nebbie del sovranismo di ritorno. Lo stesso smarrimento pervade la Polonia, anch’essa oggetto di varie procedure sanzionatorie per comportamenti in violazione.
Quando negoziammo l’adesione dei candidati dell’Est, distinguevamo fra quelli più avanzati e quelli meno, specie sul piano dei criteri politici (i “Criteri di Copenaghen”, dal Consiglio europeo che li definì come base per l’accettazione dei nuovi membri). Fra gli avanzati figuravano Ungheria e Polonia.
L’Ungheria usciva dal regime comunista moderato di Janos Kadar, che con l’Occidente aveva tentato una via intermedia fra l’ottusa chiusura della Germania Est e il nazionalismo della Romania. La Polonia conosceva la svolta interna con Solidarnosc e contava sull’influenza di Giovanni Paolo II. I loro ritardi erano valutati con benevolenza dai negoziatori europei, per riguardo alle loro specifiche condizioni.
Il periodo successivo al 2004 fu positivo. I nuovi membri macinavano primati sul piano economico e davano segni di legislazioni in linea con il resto dell’Unione. Questo finché i rispettivi elettorati non consegnarono le responsabilità di governo a partiti neo-nazionalisti e retrivi.
La campagna intrapresa dalla Commissione sarà prevedibilmente di lunga lena. Occorre tenere la barra dritta in questo campo, se si vuole che l’Unione resti una comunità di diritto e non diventi un’aggregazione mercantile.
di Cosimo Risi
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