Siamo andati, noi USA, in Afghanistan per combattere il terrorismo e non per costruire una nazione.
Il terrorismo responsabile dell’11 settembre è morto con Osama bin Laden nel 2011. E allora perché restare fino al 2021 se non per allargare la portata del mandato?
Lo “institution building” in paesi al tracollo è una pratica molto amata dalla diplomazia internazionale e dalle ONG. Si camuffa la crudezza dei fatti con le nobili intenzioni. I fatti però sono ostinati, almeno quanto i Talebani che praticano la disciplina della guerra e dell’attesa. Hanno atteso che l’Intesa di Doha con Trump dispiegasse gli effetti ultimi con Biden, e cioè il ritiro del contingente americano, per trarre la conclusione vincente. Riconquistare il paese senza che l’esercito afghano opponesse resistenza.
Lo “institution building” non ha funzionato neppure con le forze armate, figurarsi con la società civile rimasta in larga misura estranea alla missione civilizzatrice.
Si è detto giustamente delle donne liberate dal velo, dei bambini e delle bambine nelle scuole, delle giornaliste presenti in TV. Modelli da innalzare a bandiera della modernizzazione in corso. Bandiere subito ammainate all’arrivo dei Talebani.
Natalia Aspesi nota che, a cercare la fuga, sono esclusivamente gli uomini. Costoro non hanno figlie, mogli, madri da proteggere e portare con sé? O le donne, quali che siano, sono un fardello che rallenterebbe la fuga? Meglio lasciarle al loro destino di matrimoni forzati e di clausura in casa.
Non si può criticare un popolo minacciato. Si può notare che la sensibilità al mondo femminile ha fatto scarsa breccia, anche presso coloro che hanno collaborato con gli Occidentali e dovrebbero averne assorbito gli stilemi democratici.
Se poi ha ragione Roberto Saviano nell’individuare nel narcotraffico la chiave del successo, ebbene il rischio è che l’Afghanistan diventi non un santuario del terrore ma uno snodo del traffico più remunerativo al mondo. Quello che ha consentito alle milizie di finanziarsi meglio dell’esercito più ricco e potente al mondo.
Analoga retorica accompagnò l’invasione dell’Iraq. Governanti e media europei si prestarono al gioco degli equivoci: che l’intervento esterno esportasse la democrazia e la nostra panoplia di principi. Non bastò in Iraq, la nascita di DAESH – ISIS ne è stata la controprova. Non basta evidentemente in Afghanistan.
La lezione da trarre dall’Afghanistan ha vari volti. La superpotenza americana interpreta l’interesse nazionale nel senso stretto dell’interesse domestico. L’opinione pubblica è sconcertata dalla crisi conseguente la pandemia. Il Presidente in carica non vuole essere il quinto a proseguire una spedizione senza esito.
Gli alleati dovrebbero criticare il socio di maggioranza quando lo ritengono in errore. Specie se ne condividono le missioni in seno all’Alleanza Atlantica. La vagheggiata autonomia strategica europea chiede il riscontro sul terreno. Da anni l’UE dispone di una Forza di rapido intervento: non l’ha mai schierata, neppure a Kabul a proteggere l’evacuazione dei concittadini.
L’approccio al nuovo potere afghano passa per Mosca. Fra gli attori internazionali rimasti nell’Afghanistan dei Talebani, la Russia è il solo soggetto che possa condividere un interesse con il resto d’Europa. Il terrorismo di marca islamista può tracimare nel suo territorio, l’espansionismo cinese la mette alle strette in una zona in cui era abituata a dire la sua. Le prime dichiarazioni di Lavrov sono simili a quelle dei colleghi europei.
di Cosimo Risi
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