L’impulso riformatore delle istituzioni scolastiche dovuto all’opera del Ministro Sullo, sul finire degli anni sessanta dello scorso secolo, ha ancor di più valorizzato la funzione dell’istruzione scolastica, in una prospettiva di coerenza sistematica con i principi rinvenibili nell’art. 2 della Costituzione.
Negli anni successivi e soprattutto nel decennio del nuovo secolo, interventi, a volte disorganici e contraddittori, ispirati dall’affermata necessità di aprire la scuola al “mercato” e alle sue dinamiche, hanno finito per modificare, peggiorandolo, il quadro complessivo delineato nel precedente complesso ordinamentale. Invero, anche in occasione del PNRR, che prevede una spesa di 17,5 miliardi di euro per la scuola, dei quali 12 per le infrastrutture, si registra l’assenza di un dibattito approfondito sulla evidente fragilità del sistema educativo, in particolare di quello meridionale, e sulla funzione che si intende dare alla formazione nel nostro Paese (un tentativo in tal senso si rinviene nell’articolo di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin su “Il Corriere della Sera”, di domenica 23 gennaio).
Mi pare, però, che una riflessione più sistematica non possa solo muovere dalla pure importante valutazione degli effetti che la pandemia e la didattica a distanza ha prodotto sul progressivo impoverimento culturale che ormai caratterizza il sistema educativo e formativo italiano, ed i cui effetti disastrosi si intravedono anche nel percorso universitario dei giovani.
A tal fine, sarebbe necessario riflettere sui tassi di dispersione c.d. implicita, cioè sulla percentuale di studenti che termina il percorso di studio senza aver acquisito il compendio minimo di base di conoscenze e di competenza.
Secondo le stime di Drago e Reichlin, se a livello nazionale l’assenza di competenze di base minime è cresciuta dal 7% al 9.5% dal 2019 al 2021, in Campania, ad esempio, è aumentata dal 13,8% al 21%.
Si tratta, allora, di prendere piena consapevolezza che le regioni meridionali hanno un sistema educativo che ha ampiamente fallito nella sua missione di ostacolare la povertà educativa, di promuovere i talenti (spesso nascosti e non valorizzati dei giovani) o di favorire l’ascensore sociale e di formare ragazzi nella cittadinanza attiva (e ciò spiega i comportamenti antisociali che si registrano nella sempre più diffusa devianza dei minori).
Inoltre, nelle grandi città del Mezzogiorno i tassi di abbandono, che nel periodo pre Covid già si aggiravano già intorno al 20%, ora finiscono per sfiorare il 30%.
Non si possono, in questa breve riflessione, indicare rimedi e spiegarli nella loro dinamica attuativa. Riterrei, però, di individuare alcune problematiche che in sintesi enumero:
(a) la necessità di superare un’idea che muova dalla distinzione tra chi crede in un approccio centralizzato del governo della scuola e chi preferisce un’opzione che valorizzi solo i territori, scelte coerenti e complessive non possono che venire da una politica nazionale che tenga in debito conto dei risultati di esperienze virtuose locali;
(b) la fine della eccessiva burocratizzazione delle istituzioni scolastiche, basti pensare che i dirigenti scolastici sono costretti oggi ad occuparsi a volte di inutili incombenze amministrative (finanche attribuite ad altri enti pubblici), così tralasciando il progetto educativo cui dovrebbero dedicarsi per le loro scuole;
(c) ripensare davvero al sistema di reclutamento degli insegnanti, constatando che la povertà crescente ha interessato anche il loro percorso formativo ed inciso sulle stesse modalità del reclutamento (con conseguente riconoscimento di un valore “economico” della loro opera);
(d) riorganizzare le strutture amministrative del Ministero dell’Istruzione e delle sue istituzioni territoriali, incidendo sull’elevata discrezionalità, che a volte sfiora il puro “capriccio” dell’appartenenza a cordate di potere, nella scelta dei dirigenti tecnici periferici e centrali (profili in ordine ai quali un’indagine, almeno conoscitiva, sarebbe oltremodo necessaria).
Giuseppe Fauceglia
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