Il caso dell’operatrice sanitaria trentunenne è stato descritto da un team di ricerca spagnolo guidato da medici e scienziati dell’Institut Català de Salut di Tarragona. I dettagli del case report saranno presentati al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (ECCMID – 2022) che si terrà nei prossimi giorni a Lisbona, in Portogallo.
La storia ha avuto inizio il 20 dicembre dello scorso anno, quando la donna, durante un controllo di routine con un tampone molecolare, è risultata positiva al coronavirus SARS-CoV-2. All’epoca aveva ricevuto il booster (la terza dose del vaccino) da 12 giorni, dunque era prossima a ottenere il massimo della copertura immunitaria. Se non fosse stato per il controllo sistematico degli operatori sanitari, comunque, non si sarebbe accorta di nulla, dato che non presentava alcun sintomo di infezione
Alla luce della positività si è posta in autoisolamento e ha atteso dieci giorni prima di rientrare a lavoro, come indicato in un comunicato stampa dell’ECCMID. Il 10 gennaio, tuttavia, ha iniziato a sentirsi poco bene sviluppando i sintomi tipici della COVID-19, ovvero tosse e febbre.
Per questa ragione si è sottoposta nuovamente a tampone oro-rinofaringeo, risultando nuovamente positiva. Visto l’intervallo così breve tra i due contagi, i suoi colleghi hanno deciso di sottoporre i suoi campioni virali a sequenziamento genomico per determinare da quali varianti fosse stata colpita. Dalle analisi di laboratorio è emerso che il 20 dicembre fu colpita dalla variante Delta (ex seconda indiana), mentre il 10 gennaio dalla variante Omicron.
Quest’ultima è nota per la ridotta sensibilità agli anticorpi neutralizzanti, a causa delle numerose mutazioni rilevate sulla proteina S o Spike, il “gancio” sfruttato dal coronavirus per legarsi alle cellule umane, invaderle e avviare il processo di replicazione che determina la malattia (la COVID-19). Tale elusività riguarda sia gli anticorpi indotti da precedenti infezioni naturali provocate da altre varianti che quelli innescati dai vaccini, plasmati attorno al ceppo selvatico (di Wuhan) del coronavirus SARS-CoV-2.
Nonostante questa capacità di “bucare” le difese immunitarie e infettare agevolmente sia vaccinati che guariti, la variante Omicron viene comunque “tenuta a bada” dai vaccini, che abbattono in modo significativo il rischio di malattia grave e ricovero in ospedale. Anche una precedente infezione riduce il rischio di ospedalizzazione in caso di reinfezione. “Questo caso mette in evidenza il potenziale della variante Omicron di eludere la precedente immunità acquisita da un’infezione naturale con altre varianti o da vaccini.
In altre parole, le persone che hanno avuto la COVID-19 non possono presumere di essere protette dalla reinfezione, anche se sono state completamente vaccinate”, ha commentato la dottoressa Gemma Recio dell’Institut Català de Salut, tra gli autori dello studio. La scienziata sottolinea l’importanza di condurre test di sequenziamento genomico sui campioni biologici dei pazienti, che può aiutare gli esperti a rilevare le varianti elusive come la Omicron.
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