Fatte queste premesse devo confessare che non sono rimasto affatto meravigliato dalla grande confusione alla quale siamo costretti ad assistere in occasione della ricorrenza democratica del 25 aprile, ritenendo che ciò sia il segno più evidente della povertà delle proposte di una certa sinistra in Italia. Non intendo, però, attardarmi in un esame politico, ma nell’ attuale impluvio propagandistico mi pare che vada culturalmente contestato il recente volume di Luciano Canfora, “Il fascismo non è mai morto”, edito da Dedalo, che contiene più una giustificazione di alcune sue poche commendabili espressioni, che un’analisi seria ed oggettiva del fenomeno storico.
Sicuramente il libro di Canfora propone una questione di non poco momento, laddove ricostruisce tanto la persistenza del fascismo dopo il crollo del regime nel 1945, quanto l’analisi di una memoria benevola, che avrebbe consentito di preservare una certa attualità della stessa ideologia fascista (invero, fatta più di simboli che di idee). Come ritiene, con acuto approfondimento, David Bidussa (dunque, non un intellettuale di destra), sul “Domenicale” de “Il Sole 24 ore”, si tratta, quella di Canfora, di un’analisi interpretativa errata, e a queste conclusioni perviene sulla scorta di richiami puntuali alla più recente storiografia.
Ora, in questa sede non intendo affrontare questo dibattito (che, tra l’altro, trova le proprie radici più alte nell’opera di Renzo De Felice), volendo solo confutare la tesi di Canfora sulla natura filo-occidentale del regime e sulle (iniziali) simpatie cui ebbe a godere da parte statunitense e britannica, argomento funzionale alla tesi (presupposta) di una presunta continuità tra quell’esperienza e il Governo Meloni, in ragione dell’appoggio offerto alle ragioni dell’Ucraina insieme agli alleati della Nato.
Sul tema, l’Autore omette di considerare che il clima di simpatia dei governi occidentali verso le prime manifestazioni del fascismo era dovuto all’avvertita urgenza di contrare il disordine sociale, provocato dalle violente agitazioni ispirate al modello della rivoluzione bolscevica, e in Italia drammatizzate dalla profonda crisi dello Stato liberale.
Per comprendere l’atteggiamento nei confronti di un movimento al quale non si attribuiva lunga esistenza, è sufficiente leggere qualche pagina dello scrittore tedesco Friedrich Glum, che si prometteva di trattare, subito dopo la marcia su Roma, l’ “episodio fascista in Italia”, assumendone la caducità.
Bisogna, invece, in contrasto con le tesi di Canfora, ricordare il carattere di profondo anti-americanismo che ha connaturato il regime fascista, che è transitato nel dopoguerra non solo nella cultura di destra ma soprattutto in quella di sinistra, ancora significativamente impregnata da questo tratto antioccidentale.
Bisogna, poi, aggiungere che in una fase storica non marginale dell’esperienza fascista, il regime ha avuto importanti contatti con la stessa Unione Sovietica, anche quella di Stalin, tanto che in questo contesto qualcuno ha finanche spiegato la tragica fine di un “eretico” della Terza Internazionale Comunista, come Antonio Gramsci, sicuramente abbandonato dagli uomini del partito comunista rifugiati a Mosca (per chi volesse approfondire consiglio il libro di Giancarlo Lehner, “La famiglia Gramsci in Russia, con in diari inediti di Margarita e Olga Gramsci”, edizioni Mondadori). Gli storici, e sul tema richiamo il volume di Pier Luigi Bassignana, “Fascisti nel paese dei soviet”, edito Bollati Boringhieri, hanno documentato i viaggi dei gerarchi in Unione Sovietica tra il 1929 ed il 1934, con i relativi rapporti economici e politici (finanche di controllo e repressione del dissenso interno). In sostanza, la storia del movimento fascista e del regime non è così lineare e con tratti di manichea uniformità, come Confora vorrebbe far credere, sì che mi piacciono più i suoi libri sulla democrazia ateniese che il pamphlet propagandistico di oggi.
Insomma, se si rimane intellettualmente onesti, bisogna riconoscere che l’antifascismo di oggi non è quello glorioso ed eroico della Resistenza, delle “Lettere dei condannati a morte” (ed. Mondadori) e dell’elevato contenuto valoriale della Costituente, ma non è neppure quello della riconciliazione nazionale auspicata dal Presidente Ciampi, è, piuttosto, un’occasione per sterili polemiche politiche e dibattiti televisivi, in genere, tra persone incolte ed improvvisate, un fenomeno alla moda per pochi, che alimenta antagonismi pericolosi, come quelli che siamo stati costretti ad assistere in questi giorni.
Giuseppe Fauceglia
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