Si sfila la corona mediorientale (di Cosimo Risi)

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C’è un’espressione colloquiale che torna bene nel caso del Medio Oriente: sfilare la corona, e cioè dare la stura ad una serie di attacchi verbali e contumelie. La corona è quella, tragica, dell’ottobre 2023.

Da allora si susseguono i tentativi del Governo israeliano di ottenere il rilascio degli ostaggi: liberandoli con la forza; negoziando con la controparte. La prima opzione era ed è la preferita. Si dà prova di efficienza informativa e militare, ma si sconta che qualcuno cada sotto il fuoco amico. È avvenuto davvero.

La seconda opzione ha un prezzo che il Governo esita a pagare: riconoscere di fatto alla controparte lo status di belligerante, il mettere alla pari lo Stato di Israele con Hamas, una organizzazione terroristica.

La riluttanza a negoziare ha un costo diplomatico. Non piace all’amico americano. Non piace alla comunità internazionale imbevuta di afflato umanitario. Non piace alle famiglie degli ostaggi, costrette ad attendere che qualcosa accada e che nel frattempo il congiunto resti in vita. Accade dunque che le famiglie protestino davanti alla residenza del Primo Ministro, il primo indagato per la tattica dell’attesa, e che l’ora fatale scocchi per qualche ostaggio.

Benjamin Netanyahu oscilla fra le due opzioni, ne privilegia l’una o all’altra in funzione dell’interlocutore. Accetta la trattativa se a chiederla sono i mediatori (Egitto, Qatar, Stati Uniti). La respinge se risponde ai partiti di destra della maggioranza alla Knesset. E così la corona si dipana per tutto l’anno, senza che vi sia una svolta decisiva nella vicenda.

Un centinaio di ostaggi sarebbe ancora in mano ad Hamas, anche se si nutrono dubbi sulla esistenza in vita di tutti. La via maestra è l’eliminazione fisica del nemico. Si rispolvera la lezione di Golda Meir, la Premier laburista delle Olimpiadi di Monaco 1974. La Signora ordinò l’esecuzione dei terroristi che avevano ucciso gli atleti israeliani al Villaggio olimpico. La sentenza fu eseguita nell’arco di venti anni.

In questo caso, la tattica è chiara: si attacca, costi quel che costi. Anche se la terra bruciata, ovvero il bombardamento a tappeto a Gaza, comporta la morte di migliaia di vittime di qualsiasi età e sesso. I Gazani sono trattati da complici, volontari o casuali, dell’eccidio del 7 ottobre, a loro si applica la legge del contrappasso. È l’atmosfera del Vecchio Testamento. Ora come allora il popolo di Israele è sotto minaccia esistenziale, la resistenza va commisurata non all’impalpabile diritto umanitario ma all’imperativo di sopravvivere.

La minaccia portata da Hamas a Gaza e da Hezbollah in Libano è di natura esistenziale. Israele prende sul serio l’impegno “costituzionale” dell’Iran a distruggere lo Stato ebraico e liberare Gerusalemme per restituirla all’Islàm.

Israele sta eliminando i vertici delle organizzazioni nemiche ovunque si trovino. L’ultimo della lista, e principale ricercato, è Yahia Sinwar, la mente organizzatrice del colpo di ottobre, lo strenuo combattente della causa palestinese. Quali le conseguenze della sua eliminazione sul conflitto?

Stando alle dichiarazioni di Netanyahu, la campagna prosegue, altre eliminazioni sono in programma, altri rastrellamenti sono nelle carte dello Stato Maggiore. Dello stesso tenore il proclama del successore di Sinwar: la lotta continua fino alla creazione dello Stato di Palestina dal Mare Mediterraneo al Fiume Giordano.

La carneficina non avrebbe fine, a meno di segnali diversi specie da Teheran. Va preso sul serio l’appello che Netanyahu rivolse al popolo persiano: presto sarà libero dal giogo della teocrazia. Si attende l’esito del voto americano.

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