La sconfitta del diritto internazionale (di Cosimo Risi)

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Papa Francesco coglie il punto della crisi in Ucraina più delle dichiarazioni che seguono all’apertura di Volodymyr Zelenskyj. La guerra è una sconfitta per tutte le parti. A tre anni dallo scoppio, il Presidente ucraino riconosce che non è in grado di riconquistare i territori controllati dalla Russia: la Crimea dal 2014, il Donbass dal 2022.

Dieci anni di crisi, centinaia di migliaia di vittime financo nordcoreane, milioni di profughi ucraini, distruzioni immani in Ucraina, inflazione e sanzioni in Russia. Cronaca di un disastro annunciato, per parafrasare il geniale titolo di Gabriel Garcia Marquez. I dirigenti occidentali, gli stessi che fino al giorno prima inneggiavano alla sicura vittoria ucraina, prendono atto dello stato delle cose. Il mantra non è più la vittoria, ma la pace ragionevole che non suoni da resa.  Il conflitto è stato così caricato di retorica che risulta difficile trovare il giusto linguaggio per uscirne in maniera onorevole.

Donald Trump istruisce Mark Rutte che la guerra deve finire: l’Ucraina acceda alla trattativa su una piattaforma realistica, il sostegno americano è a termine; l’Europa si faccia carico della forza di interposizione fra le parti per convertire il conflitto da caldo a congelato.

Vladimir Putin replica che è pronto a parlare con Trump e negoziare con il legittimo rappresentante di Ucraina, il Presidente del Parlamento e non Zelenskyj. Questi ha il mandato scaduto, continua a governare perché non indice nuove elezioni.

Rutte riceve a Bruxelles i dirigenti degli stati membri NATO che saranno chiamati a fare parte della forza. Fra gli altri ci stanno Francia, Germania, Italia, Polonia. Ciascuno dovrà fornire un certo numero di militari per alimentare il contingente. Se schierato lungo l’intera frontiera russo-ucraina, dovrebbe contare fino a 150 mila uomini, senza contare il multiplo nelle retrovie.

Gli Europei sono pronti a intervenire, dubitano della portata dell’impegno: eccessivo per le loro disponibilità e di durata indeterminata. L’Italia non potrebbe superare le 5mila unità, essendo contemporaneamente impegnata in Libano con UNIFIL e su altri fronti.

L’Europa interverrebbe con il proprio vessillo, senza le insegne dell’ONU, ad evitare il veto di Cina e Russia, né quelle, abborrite da Mosca, della NATO. Sarebbe a scartamento ridotto, alcuni suoi membri non hanno una forza militare significativa, altri (Slovacchia, Ungheria, Spagna) hanno riserve di principio. La presenza della Turchia, membro NATO e non UE, sarebbe necessaria ad irrobustire il contingente.             La Turchia sarebbe ben accetta alla Russia, i rapporti a tratti ambigui fra Erdogan e Putin giocano a favore in questo caso.

La trattativa entrerà nel vivo dal 20 gennaio 2025, sulla base delle aggiornate istruzioni che il Presidente americano, allora in carica, darà al Segretario Generale NATO. Nel frattempo, Trump chiede agli alleati europei di portare al 5% del PIL il tetto delle spese militari, già fissato a Cardiff al 2%. Un contributo pesante per le finanze europee, con prevedibili resistenze delle opinioni pubbliche a militarizzare i bilanci.

I negoziatori dovranno spendere una parola di rammarico per lo sfacelo umanitario, politico, giuridico. La comunità internazionale ha faticosamente costruito il diritto internazionale dalla Carta di San Francisco in poi, lo sta dilaniando con tre anni di violazioni. L’assuefazione all’idea della guerra è il triste ritorno al passato. L’attentato di Magdeburgo aggiunge una nota fosca alla politica di integrazione dei migranti. L’Europa si scopre esposta davanti alle sue contraddizioni ed alle sue paure.

di Cosimo Risi

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