Nel 2003, presidenza italiana UE, si decise di riconoscere alla Turchia lo status di paese candidato all’adesione e di avviare, di là a qualche tempo, le trattative per l’adesione. Le trattative consistevano nell’apertura di capitoli negoziali sulle relative parti della legislazione europea che il candidato è tenuto a recepire nell’ordinamento interno per essere ammesso nel circolo degli “eletti”, e cioè essere accettato come stato membro a pieno titolo con tutto il bagaglio di diritti, obblighi, vantaggi, svantaggi.
A differenza che con altri paesi candidati, le trattative con la Turchia furono subito impervie. Molti erano gli ostacoli sul cammino, il principale dei quali aveva natura squisitamente politica: il dubbio “ontologico” se la Turchia fosse davvero un paese europeo. La geografia spinge la Turchia verso Oriente, dove giace la gran parte del territorio, mentre la popolazione si affolla nelle grandi conurbazioni europee di Istanbul e Ankara. Dietro l’ontologia si celava l’altro grande interrogativo: se l’Unione fosse in condizione di assorbire una popolazione in crescita costante contro la povera demografia europea, in larga parte musulmana e con tendenza a politicizzare l’Islàm allontanandosi dal retaggio di Kemal Ataturk, il padre fondatore della Repubblica e laico convinto.
Se questi interrogativi premevano nei primi anni duemila, figurarsi oggi in pieno marasma islamista, con i terroristi che si richiamano alla visione radicale dell’Islàm politico e sono pronti a costruire il Califfato persino alla periferia d’Europa ed a penetrare nei recessi delle nostre città. Anche la Turchia è vittima di questo terrorismo, e questo la “europeizza” molto più di tante dichiarazioni di principio.
La Turchia quindi come baluardo d’Europa: prima come membro NATO a contenere l’espansionismo sovietico (la flotta russa doveva attraversare i Dardanelli per entrare nel Mediterraneo, a parte le basi navali in Siria); ora come “paese sicuro” dove rimpatriare i profughi provenienti principalmente dalla Siria.
La Turchia è funzionale all’Europa in termini di sicurezza quanto l’Europa è funzionale alla Turchia in termini di prosperità. Il modello turco di alto tasso di crescita nel mezzo della crisi finanziaria segna il passo. Vengono fuori le distorsioni dello sviluppo accelerato, i disequilibri regionali che spopolano le campagne a favore delle città cresciute oltre ogni compatibilità, le differenze fra classi e gruppi etnici. Il caso curdo è sempre aperto e genera reazioni da parte del Governo di Ankara poco gradite in Occidente, che trova nei curdi l’argine alla diffusione del DAESH – ISIS fra Siria e Iraq.
Ed infine l’ulteriore paradosso turco. La Turchia non riconosce Cipro, uno stato membro dell’Unione che può bloccare in qualsiasi momento i negoziati di adesione potendo contare sul vincolo delle decisioni all’unanimità.
Ecco perché l’accordo di marzo UE – Turchia non era affatto scontato e segna un progresso nelle relazioni bilaterali, ancorché sia criticato dalle ONG per essere poco o per nulla attento alle ragioni dei migranti. Da questo orecchio i governanti europei sentono poco. A loro preme il consenso della popolazione europea, che può tradire nel voto i partiti di governo, come accaduto nelle elezioni amministrative in Germania, perché li ritiene più vicini alle esigenze degli stranieri che a quelle dei concittadini. Arginare il flusso dei migranti che con l’estate può toccare punte inusitate, è la priorità dei governi, se non vogliono essere travolti dall’ondata comunemente definita lepenista, da quella Madame Marine Le Pen che punta all’Eliseo nel 2017.
La logica dei numeri nelle urne è irresistibile e lo sbocco turco torna quanto mai gradito nelle attuali circostanze. Anche se bisogna pagare il prezzo del riconoscimento politico con lo sblocco dei negoziati di adesione e contribuire finanziariamente coi tre miliardi promessi e altri solo vagheggiati.
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